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Banda della Uno bianca, parlano i familiari delle vittime: "Bene Fabio in cella, ma senza smettere d'indagare"

Le motivazioni del diniego dei permessi confermano i dubbi dei familiari che hanno chiesto nuove indagini

Banda della Uno bianca, parlano i familiari delle vittime: <Bene Fabio in cella, ma senza smettere d'indagare>

Fabio Savi a spasso per una qualsiasi città italiana, in permesso premio? non è solo un'eventualità che i magistrati di sorveglianza continuano a escludere, ma anche una prospettiva che torna a far sanguinare le ferite che ancora sono aperte nella carne e nell'anima delle vittime sopravvissute e dei parenti degli assassinati dalla Banda della Uno bianca.

L'ipotesi non sorprende Alberto Capolungo, figlio dell'ex-carabiniere Pietro, barbaramente ucciso all'Armeria Volturno, insieme alla titolare dell'esercizio in cui lavorava, Licia Ansaloni, il 2 maggio 1991: <Trovo scontato che i Savi continuino a chiedere d'interrompere la detenzione e non mi meraviglierei se, prima o poi, qualcuno rispondesse di sì, a questo genere di richieste. Le leggi le conosciamo bene. Però, fintanto che questi permessi vengono negati, tiro un sospiro di sollievo>. Capolungo, lo scorso 21 giugno, è stato eletto nuovo presidente dell'associazione delle vittime e dei familiari della banda della Uno bianca, retta fino ad allora, dalla sua fondazione, da Rosanna Zecchi, mogli di Primo, un pensionato abbattuto proprio da Fabio Savi, in quanto testimone di una rapina, il 6 ottobre 1990. Capolungo si dice concorde anche con la motivazione addotta dai giudici per negare il permesso premio al rapinatore-killer: <Le motivazioni addotte nei processi, almeno per alcuni dei delitti più efferati, continuano a non convincere. Siamo ancora in attesa di una spiegazione attendibile del loro modo esagerato di sparare anche su cittadini inermi>. 

Secondo Alessandro Stefanini, fratello di Otello, uno dei tre giovani carabinieri sterminati al Pilastro, il 4 gennaio 1991, nell'eccidio più efferato e inspiegabile compiuto dai tre fratelli Savi, <è incredibile proprio che questi criminali possano presentare un tale genere di richieste>. <Le ferite che ancora sopportiamo a causa dei loro crimini non si possono rimarginare. Come mi ricorda sempre mia madre, la quale è profondamente credente, il perdono, i Savi, devono chiederlo e sperare di ottenerlo da Dio: il nostro non potranno mai averlo>. E sulla contraddizione che esiste, tra la motivazione addotta per negare il permesso e il fatto che la magistratura sembra continuare a non credere ci sia molto di più da scoprire, circa l'epopea scellerata della Uno bianca? <Mi pare che il contrasto sia evidente: ci sono magistrati che pensano che la storia, da un punto di vista giudiziario sia chiusa definitivamente; altri che, come quelli che hanno recentemente negato il permesso a Fabio Savi, i quali sono convinti che avrebbero ancora molto da raccontare.Anche io sono di questo avviso, tanto che non ho esitato nel firmare l'esposto che, insieme ad altri che condividono con me e mia madre questo dolore inestinguibile e questi dubbi, è stato depositato alla Procura di Bologna, qualche mese fa>.

Già, perché sono almeno tre i documenti, corposi e circostanziati, con cui, da tre anni, si chiede di riaprire almeno parzialmente questa pagina di storia giudiziaria. Il primo firmatario della denuncia elaborata da una parte dei familiari delle vittime, è Ludovico Mitilini, fratello di Mauro, anch'egli morto nell'agguato del 4 gennaio '91. Anche Ludovico indossa una divisa, quella della Polizia di Stato, a dimostrazione ulteriore di come legalità, sete di giustizia e impegno civile fossero una cifra distintiva non solo dei caduti, ma di tutti i componenti delle rispettive famiglie. Pur conoscendo perfettamente la normativa sulla detenzione, in virtù del mestiere che fa, anche per Ludovico sarebbe <difficile da accettare l'idea che gli assassini di mio fratello e di tanti altri innocenti, agenti delle forze dell'ordine e civili> possano circolare liberamente per qualche strada, come se appartenessero alla gente comune. Per di più, i Savi non sembrano aver mai nemmeno cercato di contattare qualcuna delle loro vittime o dei parenti di queste, come di solito accade nei percorsi riabilitativi: <Certamente non lo hanno fatto con la mia famiglia e con quelle con cui ho più frequenti e diretti contatti - conferma Mitilini -, anche se non posso escludere, proprio perché siamo così spaventosamente tanti, che ci abbiano provato con qualcun altro>. Nella motivazione del diniego, Mitilini trova conferma della giustezza della posizione assunta, presentando l'esposto? <Certamente! Io sono confortato da questa decisione e dal ragionamento che ne sta alla base e sono fiducioso nel riscontrare come nella magistratura cresca la sensazione che non tutto sia stato chiarito dai processi che hanno condannato i Savi>. Però, qualcuno ha la sensazione che le nuove inchieste procedano troppo lentamente: anche lei? <Io penso che chiunque abbia studiato approfonditamente questa storia, ne abbia colto la complessità e la vastità e, per tanto, non si può pretendere dai nuovi inquirenti, che casomai negli anni '80 e '90 avevano appena iniziato la loro carriera, che assorbano e compenetrino adeguatamente la materia in poche settimane o in un pugno di mesi. Mi aspetto a breve delle novità, ma questi tre anni passati dalla presentazione del primo esposto, seguito da altri due, tra cui il nostro, è un tempo ragionevolmente necessario per poter padroneggiare adeguatamente, anche dal vista processuale, una storia così sterminata e ancora avvolta a tante ombre>.

Insomma, secondo i parenti delle vittime di Fabio, Roberto, e Albero Savi - e di Marino Occhipinti, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli -, i giudici che hanno rigettato l'istanza di uno dei tre fratelli ergastolani non hanno semplicemente impedito a un uomo di uscire dal carcere, ma anche indicato una strada - quella della confessione da parte dei Savi stessi, oppure dell'approfondimento di alcuni passaggi della vicenda della Uno bianca da parte degli inquirenti - per far in modo che altri eventuali loro complici, scoprendoli anche a distanza di tanti anni dai fatti, paghino i rispettivi conti con la Giustizia.

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