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La polemica
09 Settembre 2024 - 15:30
«Tex un esemplare della “razza bianca” che opprime e sfrutta i nativi americani? Ma per carità! Sono solo sciocchezze, parole in libertà per alimentare un’operazione becera da parte di chi non sa più dove arrampicarsi per vendere qualche copia del proprio giornale!»
Lucio Filippucci non usa mezzi termini, per bollare come «squallida» la pretestuosa polemica agitata da "La Repubblica", lui che di Tex ne ha disegnati diversi, a partire da "Seminoles", il suo primo album di grande formato e talmente apprezzato dal pubblico da risultare attualmente esaurito nel catalogo della leggendaria casa editrice Bonelli.
Filippucci - classe 1955 - è uno dei grandi maestri della scuola bolognese del fumetto, iniziata sostituendo niente meno che Milo Manara nella realizzazione delle storie di Crhis Lean, poi, diventando famoso nell’illustrazione di Martin Mystère, fino, appunto, alla consacrazione col disegno di una storia di Tex.
«Non lo volevo disegnare, mi sembrava una sfida troppo grande per le mie capacità - nel western ci sono i cavalli, le armi, le ambientazioni, determinati costumi da rispettare, ecc. - e, per di più, non ho mai amato quel genere. Però, una sfida del genere - mi tremavano le gambe - non può non essere accettata e, per fortuna, l’ho anche vinta».
E la sua impressione è quella di aver disegnato un pessimo esempio del colonialismo occidentale?
«Tex è un personaggio che ha molti decenni sulle spalle, che si è evoluto insieme ai tempi, anzi, in parte li ha preceduti. Certo, all’inizio, il suo profilo era ispirato a Gary Cooper, mentre la personalità ricalcava il clichè del John Wayne di “Ombre Rosse”, quindi, si presentava al pubblico secondo i canoni classici del Western fine anni ‘40, inizio ‘50. Per altro, quasi nessuno ricorda che nacque come Tex Killer, come un bandito».
Tex un bandito?
«Esatto! Però, nel volger di un tempo breve, viene trasformato in un eroe positivo, che si batte per la legge e, in parallelo all’evoluzione dello stesso cinema americano degli anni ‘60 e ‘70, diventa anche Aquila della notte, cioè, un capo dei Navajos, con moglie indiana e con un fedele compagno - anzi, un “pard” - dello stessa tribù. Tiger Jack, è bene ricordarlo, inizia a comparire in Tex dall’albo numero 8».
Dunque, quali sono le caratteristiche del personaggio?
«Tex è un classico eroe senza macchia che si batte per la giustizia, con coraggio e con lealtà, schierandosi sempre dalla parte del più debole, bianco o nero, statunitense o nativo che sia, non esitando a mettere la mano alla Colt per uccidere i “cattivi”, messicani o indiani, “wasp” o stranieri. Non c’è nulla di razzista nel suo agire, mai. Agisce sempre in nome di un diritto naturale, più che in nome della legge. Tanto è vero che banchieri, speculatori, approfittatori e sfruttatori di indiani hanno affollato grandemente il novero delle sue vittime».
Il nome richiama chiaramente lo Stato del Texas: dunque, Tex può essere sospettato di esser stato un sudista, uno schiavista.
«No. Le poche pagine che parlano della Guerra civile americana raccontano di un uomo che sì, nato nel sud, inizia il conflitto dalla sua parte, ma per passare subito dalla parte degli Unionisti, ma rifiutandosi anche di combattere al fronte, limitandosi a fare lo scout e rifiutandosi di partecipare a quella che reputa una strage inutile e insensata».
Torniamo un momento alle radici del personaggio: si può sostenere che Tex abbia avuto un percorso parallelo all’evoluzione cinematografica del genere western?
«Chiaramente sì. Se i primi anni si accompagnano alle grandi pellicole di John Ford e Sam Peckinpah; successivamente il nostro ranger è più vicino ai personaggio di “Soldato blu”, di “Un piccolo grande uomo”, di “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, di “Un uomo chiamato cavallo”. Per riassumere in una battuta, nasce burbero e risoluto come Ringo, per diventare profondo e problematico come il tenente John Dumbar di “Balla coi lupi”, specialmente nel rapporto con gli indiani».
Ha risentito anche dei canoni imposti da Sergio Leone e della stagione dei così detti “spaghetti-western”?
«Dal punto di vista del realismo delle storie e delle situazioni che affronta, senza dubbio. Dal punto di vista grafico e stilistico, però, questa parte delle sua evoluzione lo porta ad assomigliare, piu che al Joe di “Per un pugno di dollari”, proprio ai personaggi del Clint Eastwood regista, a quelli resi immortali da “Gli spietati”».
Insomma, Tex non si tocca, politicamente parlando.
«Strumentalizzare Tex, per affibbiargli questa o quell’altra etichetta anti-progressista è un’operazione mediatica che squalifica solo chi la tenta, dimostrando come sempre più spesso, i così detti intellettuali, scarseggiano non solo d’intelletto, ma anche di fantasia. Tex appartiene ormai all’immaginario collettivo del Paese, come icona di un mondo che, se non è migliore del nostro, vede almeno cavalcare qualcuno che, senza paura, ha almeno la voglia di tentare di migliorarlo. E di migliorarlo combattendo il “Potere”, dal basso: forse, è questo che dà fastidio a La Repubblica».
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