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L'intervista

Banda della Uno Bianca, "ecco perché i giudici non indagano sul secondo livello"

Massimiliano Mazzanti sul permesso negato a Fabio Savi e i segreti non ancora svelati della gang criminale

Banda della Uno Bianca, "ecco perché i giudici non indagano sul secondo livello"

I magistrati hanno negato ancora una volta un permesso premio a Fabio Savi, sostenendo che non avrebbe manifestato sufficientemente il proprio distacco dalla sua precedente e inaudita vita criminale. Il complice principale dei due fratelli poliziotti, Roberto e Alberto, quindi, non potrà uscire dal carcere milanese di Opera, dove attualmente si trova, per completare il suo 34esimo anno di detenzione continuativa. Una decisione giusta, per i parenti delle vittime della famigerata “Banda della Uno bianca”, ma che solleva anche qualche perplessità, in particolare per la motivazione, nella parte in cui si evidenzia come Fabio Savi non avrebbe spiegato in modo esaustivo la sproporzione tra l’efferatezza di alcuni dei tanti crimini della gang e i moventi che i rapinatori e assassini sostengono averli spinti a compiere tanti delitti.

Ne parliamo col collega Massimiliano Mazzanti, bolognese e autore dei due fondamentali volumi che ricostruiscono la storia della “Uno bianca” e che sta per pubblicare un terzo volume dai contenuti inediti e choccanti.

Mazzanti, cosa lascia perplessi, in questo diniego a uscire dal carcere? Ragioni di carattere giuridico o umanitario?
«Nulla di tutto ciò: la decisione dei giudici è formalmente corretta, quel che appare contraddittorio è ciò che traspare, dietro la decisione di chi ha scritto le motivazioni».

Cioè?
«I giudici che negano a Savi il permesso lasciano intendere chiaramente di non credere che la “Uno bianca»” fosse composta solo dai tre fratelli e dagli altri tre complici della Polizia di Stato, individuati e arrestati insieme a loro nel 1994; oppure, quanto meno, di non credere che non si siano avvalsi di complicità in termini di protezione e coperture».

Un dubbio legittimo, tutto sommato?
«Sì, certo, se non fosse che è la stessa magistratura per prima, seppur non gli stessi giudici, che sembra non credere all’esistenza di un “secondo livello”. Sono passati ormai tre anni, da quando ho depositato due esposti in cui sono esattamente indicati gli episodi inquietanti e i personaggi che potrebbero aver aiutato, se non “stimolato” i Savi a compiere atti di tipo “terroristico”. E parecchi mesi sono trascorsi da quando alcuni familiari delle vittime, coi quali collaboro da anni, ne hanno depositato pure un terzo. Si tratta di atti ben documentati e afferenti specifici episodi, in cui è chiaro che i Savi non possono non aver goduto di protezioni all’interno di strutture delle Forze dell’ordine e degli organi inquirenti bolognesi».

A Bologna si sta indagando, sulla base di questi esposti?
«Sì, ma la sensazione è che stia trascorrendo troppo tempo, oltre a quello che già divide l’oggi dai tragici anni della “Uno bianca” e, non giungendo a una conclusione, queste indagini rischiano di perdersi nel nulla».

Sta per uscire un tuo libro, con parte almeno di questi documenti. Puoi anticipare qualcosa?
«Si tratta di carte processuali e investigative relative al primo, vero anno di attività della banda, al 1988, quando avvennero le prime, sanguinose rapine e, soprattutto, la Strage di Castel Maggiore, con l’assassinio senza senso di due carabinieri, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, il 20 aprile di quell’anno».

E cosa emergerebbe, da quelle carte?
«Le indagini sui principali delitti di quella stagione, è noto, furono depistate da un brigadiere dell’Arma, Domenico Macauda. Quel carabiniere, tempestivamente e casualmente scoperto a causa di un madornale errore compiuto, orchestrando queste false piste, fu frettolosamente e sbrigativamente processato per calunnia e fatto uscire da questa storia senza che nessuno potesse capire nemmeno come e perché avrebbe deciso di aiutare i Savi».

L’attività criminale della “Uno bianca”, però, si protrarrà per i successivi sei anni, con Macauda in carcere e fuori dai giochi.
«Certamente, ma quel che è accaduto nel 1988, quando dei Savi nulla si sapeva, spiega con sufficiente chiarezza che qualcuno si mosse per proteggere quella che, allora, apparve come una della tante bande di rapinatori-assassini, probabilmente per agganciarli come utile “gruppo di fuoco” al momento del bisogno».

Sono accuse pesanti?
«Macauda fu processato e condannato apparentemente a una pena pesante, scontata sì e no per la metà. Eppure, in quel processo, non furono chiarite né la dinamica dei depistaggi e men che meno le ragioni che lo avrebbero indotto a tentare di far condannare degli innocenti per i delitti compiuti dai Savi. Addirittura, si è stabilito che avrebbe agito senza nemmeno conoscerli, pur essendo stato trovato in possesso di una cartina preparatoria della rapina alla Coop Massarenti che la “Uno bianca” mise a segno diversi mesi dopo il suo arresto».

Dunque, sarebbe questo Macauda il “secondo livello”?
«No, probabilmente Macauda era un complice diretto dei Savi o, comunque, un elemento di diretto contatto con la banda. Il “secondo livello” dovrebbe essere cercato tra gli uomini che aiutarono il brigadiere a uscire quasi indenne dal processo e dalle successive indagini volte a scoprire gli assassini di Stasi ed Erriu».

E tu dove andresti a cercarli, i componenti del secondo livelo?
«Tra alcuni colleghi e superiori di Macauda, cioè, tra altri carabinieri evidentemente infedeli che, all’epoca, operavano sotto le Due Torri; nonché tra alcuni inquirenti, i quali, evidentemente, si accontentarono un po’ troppo facilmente di versioni di comodo, volte solo a chiudere senza troppe complicazioni la vicenda Macauda».

Scusa, però, hai valutato l’ipotesi alternativa e, cioè, che i carabinieri abbiano magari voluto solo mascherare l’eventuale coinvolgimento di un loro uomo nella gang dei Savi, per salvaguardare il buon nome dell’Arma, senza aver nulla a che fare con quanto successo dopo?
«È un’ipotesi che ha un suo fondamento, ma che si scontra con la logica. E spiego il perché. È impensabile che i superiori e i colleghi di Macauda che contribuirono a farlo passare, di fatto, per un depistatore folle e senza un reale movente, salvandolo da accuse e condanne più pesanti, non gli abbiano fatto confessare, ammesso che non lo sapessero già, chi fossero quelli che, allora, apparivano come i crudeli e misteriosi killer di Rimini, Casalecchio e Castel Maggiore (i teatri dei crimini più efferati del 1988, ndr). Quindi, è gioco-forza ipotizzare come “qualcuno”, dall’88 al ‘94, pur sapendo dove andare a cercare questa misteriosa “Uno bianca”, abbia avuto tutto l’interesse a occultarne i componenti. E questo spiegherebbe fin troppo bene perché, a rapine compiute senza dubbio a fine di lucro, i Savi abbiano alternato, tra il dicembre 1990 e i primi mesi del 1991, alcuni atti inspiegabili per dei rapinatori, di chiara matrice terroristica, come la Strage del Pilastro, con l’assassinio di altri tre carabinieri».

Una sorta di “do ut des” scellerato: protezione ai rapinatori in cambio di “fuoco” in alcune situazioni di particolare interesse per i loro “protettori”?
«Esattamente. E tra poco, dalle carte che ho raccolto in un libro-inchiesta che sarà necessario pubblicare in due volumi, per oltre 800 pagine, chiunque potrà rendersi conto di come è nata e di come è stata fin dall’inizio protetta la “Banda della Uno bianca”. Ed è per questo che trovo strano che la magistratura, per far fare a Fabio Savi un giro fuori dal carcere, pretenda da questo criminale che confessi cose a cui, sempre la magistratura, sembra ostinarsi a non voler credere, nonostante le carte depositate da me e da altri».

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