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La Recensione
03 Novembre 2024 - 10:39
Nel suo ultimo film, Parthenope, Paolo Sorrentino si conferma maestro di un cinema che non è solo un'arte visiva, ma un viaggio all'interno dell'animo umano, un lungo sguardo verso le profondità delle nostre paure, dei desideri e dei rimpianti. Sorrentino non racconta semplicemente una storia: costruisce un mondo, una Napoli mitica e concreta, la cui bellezza è tanto accecante quanto avvelenata di nostalgia. Parthenope è una città-personaggio, una musa e una condanna, incarnata in una donna che è allo stesso tempo madre e figlia, amante e solitaria, simbolo e carne.
Il personaggio di Parthenope, interpretato dalla bellissima Celeste Dalla Porta, è nato nelle acque del mito e nella Napoli del 1950, è il cuore pulsante di questo film. La sua vita è un viaggio attraverso il secolo, uno specchio che riflette e amplifica ogni immagine di Napoli e di chi la abita. È una figura che sembra uscita dalla classicità: incarna la bellezza devastante di una sirena, la stessa della ninfa che, secondo il mito fondativo, dà il nome alla città. Ma Parthenope è anche una metafora della solitudine che si cela dietro il fascino e la seduzione, una solitudine che si fa destino, come suggerisce lo stesso Sorrentino. Come la Napoli di Raffaele La Capria in Ultimi viaggi dell'Italia perduta, Parthenope non può trovare pace né appagamento, avvolta com'è in un'aura di malinconia e rimpianto. “Non si può essere felici nel posto più bello del mondo”, ci ricorda Sorrentino attraverso La Capria, e in questa bellezza senza redenzione si radica il tormento del film.
Sorrentino ci consegna una Napoli che vive in un tempo sospeso tra passato e presente, tra memoria e visione. La città è un personaggio che respira insieme ai protagonisti, che riflette le loro passioni e le loro angosce. Ogni inquadratura, ogni dettaglio della scenografia, sono pregni di una bellezza che ha il sapore della perdizione. Le strade di Napoli diventano un teatro di fantasmi, attraversato da figure letterarie e storiche che Sorrentino evoca con una delicatezza e una forza straordinaria. E qui aleggia il fantasma di Curzio Malaparte, con la sua ironia pungente e il suo amore controverso per il Sud; intravediamo John Cheever, che, come il “caprese” Norman Douglas, racconta una Capri radiosa e ambigua, uno scenario onirico in cui Parthenope si rifugia ma che non le offre alcuna via di fuga dalla sua solitudine.
Con uno stile che richiama esplicitamente il cinema Felliniano, Sorrentino mescola elementi di realtà e di sogno, usando la fotografia di Luca Bigazzi per costruire un universo visivo che è insieme decadente e sontuoso. La bellezza della città diventa un filtro attraverso il quale Partenope si specchia, si perde, e allo stesso tempo riscopre la propria essenza. Ma questa bellezza non è mai consolatoria: come la Ninfa, Parthenope è destinata a rimanere sola, intrappolata tra il desiderio degli uomini e l'impossibilità di una vera felicità. Uno dei temi centrali del film è appunto quello del desiderio maschile, un desiderio che Parthenope attira senza cercarlo. Lei è l'epitome della seduzione, ma questa qualità è per lei più una maledizione che un dono. Gli uomini sono attratti da lei come falene alla luce, ma lei non trova mai, in nessuno di loro, l'amore autentico, la connessione che potrebbe salvarla dal suo isolamento. Perfino l'amore per il fratello, un legame affettuoso ma doloroso, è destinato a spezzarsi tragicamente: il giovane, fragile e innamorato, non sopravvive all'idealizzazione della sorella, al peso di un amore impossibile.
L'unica relazione positiva che Parthenope riesce a stabilire è con il suo professore di antropologia, un legame del tutto platonico ma profondo, fatto di scambi intellettuali e silenzi condivisi. Attraverso di lui, Parthenope scopre il valore della cultura, della storia, dell'umanità che si cela sotto la superficie della sua bellezza, ma anche la consapevolezza che tutto ciò non la libererà dalla sua natura solitaria. Sorrentino ci suggerisce, in modo sottile e poetico, che non esiste bellezza senza solitudine, e che la ricerca dell'amore, quando si è creatura tanto sublime, è destinata all'insoddisfazione.
Sorrentino intreccia in maniera subliminale la figura di Parthenope con quella di Ferdinand Bardamu, il personaggio di Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline. Questo emerge dalla citazione in epigrafe – “Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi ovunque” – un omaggio a quella visione cinica e dolente che già in La Grande Bellezza affiorava come una ferita. Parthenope non è solo una figura femminile, ma incarna il viaggio, l'errare, il perdersi nella vastità dell'esistenza senza mai trovare un porto sicuro. Sorrentino sembra suggerire che Bardamu è una parte di Parthenope stessa, e forse una parte dello stesso regista: un viaggiatore che si confronta con la bellezza e il dolore della vita, che esplora la giovinezza con sfrontatezza, ma che poi si perde, inevitabilmente, nella sua brevità. Questa connessione con Céline, tra l'anima della donna e quella del personaggio di Voyage au bout de la nuit, aggiunge un ulteriore livello di complessità alla poetica del film.
Parthenope è un film denso di citazioni letterarie, di echi culturali e artistici che si rincorrono in un labirinto di significati. Sorrentino si muove con maestria tra questi riferimenti, offrendo un'opera che è tanto un omaggio alla letteratura, alla storia e all'antropologia quanto un'intima riflessione sul senso della vita e della bellezza. Da Eduardo Scarpetta a Totò, da Eduardo De Filippo a Marotta, fino a Pino Daniele, Napoli emerge come una stratificazione infinita di cultura e personaggi, una città in cui ogni angolo, ogni volto, sembra raccontare una storia.
L'estetica felliniana, che Sorrentino ha già esplorato ne La Grande Bellezza, qui ritorna in forme nuove: non è solo un omaggio, ma uno stile che si adatta perfettamente a questo viaggio visionario. Le immagini oniriche e surreali di Parthenope si alternano a scene di una realtà cruda e vibrante, creando un equilibrio tra sogno e realtà che solo il regista napoletano sa rendere così affascinante e potente. La fotografia è di una bellezza ipnotica, fatta di colori intensi e contrasti, che amplificano lo spessore emotivo dei personaggi e dei luoghi. E Napoli, come sempre in Sorrentino, è lo specchio di tutte le contraddizioni umane: il luogo dell'amore e del disincanto, della bellezza e del rimpianto.
Con Parthenope, Paolo Sorrentino ha creato una nuova opera d'arte che è al contempo una celebrazione e una critica della bellezza, una riflessione sull'incomunicabilità e sulla solitudine. Parthenope, la donna e la città, è un'icona che racchiude in sé la complessità della vita stessa: ogni sua bellezza porta con sé un'ombra, ogni momento di gioia è accompagnato da un retrogusto amaro. Sorrentino ci ricorda, attraverso questo viaggio visionario e poetico, che la vita è un mistero senza soluzione, un percorso pieno di meraviglia e di dolore, in cui, forse, l'unica certezza è il rimpianto. In definitiva, Parthenope è un film che richiede attenzione e sensibilità, un'esperienza che non si esaurisce con la visione, ma che rimane, come un sogno, a riecheggiare dentro di noi. È una lettera d'amore. Un ritratto della Napoli dell’anima.
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