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OGGI E' L'ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DEL PILASTRO

Ecco il mistero sulla nascita della Uno bianca

Massimiliano Mazzanti: "Dietro la morte di Stasi ed Erriu oscure manovre dell'Arma e della Procura"

Ecco il mistero sulla nascita della Uno bianca

Il monumento a Stasi ed Erriu, nel luogo dove furono assassinati

Massimiliano Mazzanti, giornalista investigativo da lunga data, ha scritto due libri sulla Banda della Uno bianca e sta per mandare alle stampe un terzo volume - il cui titolo, anticipa, sarà "1988" - ed è certamente il maggior esperto della materia, intervistato più volte da tutte le principali testate televisive nazionali che hanno narrato l'epopea tragica dei fratelli Fabio, Roberto e Alberto Savi e dei loro complici. Inoltre, tre anni fa, prima ancora d'iniziare a scrivere il volume che sarà prossimamente a disposizione dei lettori, depositò due esposti alla magistratura, coi documenti che aveva man mano reperito negli archivi e altrove, e da cui ha preso piede la nuova inchiesta che la Procura di Bologna, sotto la direzione di Lucia Russo, ha aperto sui delitti che insanguinarono l'Emilia Romagna e le Marche, tra il 1987 e il 1988. In questa intervista col nostro giornale - di cui, per altro, è una delle firme principali -, in occasione dell'anniversario del 4 gennaio - giorno in cui, nel 1991, fu perpetrata l'orrenda Strage del Pilastro, col bestiale assassinio di Domenico Moneta, Mauro Mitili e Otello Stefanini -, il nostro collaboratore anticipa alcuni dei temi principali della sua investigazione, quelli su cui si concentrerebbero anche le attenzioni degli organi di giustizia petroniani.  

Mazzanti, in primo luogo, perché quel titolo un po' anonimo, 1988, per parlare della Uno bianca?

In primo luogo, perché nel 1988 la Banda della Uno bianca non esisteva. I gravi delitti di cui si macchiarono i Savi e i loro complici, in quel tremendo primo e vero anno di attività criminali e assassine, furono ascritti, con espressione inventata dalla stampa, a una fantomatica Banda delle coop, ma solo a partire dall'anno successivo, cioè, dal 1989. Anche i precedenti delitti meno gravi compiuti da Fabio, Roberto e Alberto, per lo più rapine ai caselli autostradali e in gran parte nel secondo semestre 1987, prima della loro scoperta, erano stati attribuiti a un'altra fantomatica batteria criminale, battezzata dai giornalisti Banda della Regata o Banda dell'Automare. Di Banda della Uno bianca, compiutamente, si inizierà a parlare solo nel dicembre 1991, con gli assalti ai campi nomadi della periferia di Bologna.

Nomi diversi, va bene, ma sempre per indicare gli stessi crimini e gli stessi banditi. Poco cambia, no?

No, mi permetta, cambia tantissimo. Se è vero che, con quelle etichette, si erano indicate decine e decine di delitti compiuti dai fratelli Savi e dai loro complici; lo è altrettanto che investigatori e inquirenti tutto ciò lo scoprirono solo il 21 novembre 1994, quando questi assassini e rapinatori furono scoperti e arrestati. Fino a quel momento, però, Banda della Regata e Banda delle coop non indicavano solo due fantomatici gruppi di delinquenti; bensì, due aggregazioni di imputati che, per i delitti compiuti dai Savi, erano già stati indagati, arrestati e processati, anche in secondo grado. Attenzione: persone innocenti, a cui erano stati addossati i delitti e gli omicidi compiuti dai tre fratelli e da almeno altri tre poliziotti loro complici.

Anche per la Strage del Pilastro finirono nei guai degli innocenti.

Appunto, prima di smascherare Roberto Savi e gli altri, la Procura della Repubblica di Bologna, pur sapendo di non aver messo le mani su tutti i componenti della Uno bianca - che, infatti, continuava ad agire, a sparare e a uccidere -, era convinta di aver messo le mani e portato alla sbarra anche i principali elementi della Banda della Uno bianca, individuati nei fratelli Peter e William Santagata

Torniamo al titolo e al perché di tanta attenzione al 1988.

Perché in quell'anno, in particolare nel primo quadrimestre, vengono consumati i primi gravi assassini, nel corso della rapina alla Coop Celle di Rimini - con l'assassinio della guardia giurata Giampiero Picello -; nell'analogo colpo alla Coop Marconi di Casalecchio - con la morte di Carlo Beccari -; con la Strage di Castel Maggiore, agguato dove furono sterminati i carabinieri Cataldo Stasi e Umberto Erriu. E perché, con particolare riferimento al secondo e al terzo episodio dei tre citati, si svilupparono i depistaggi di un brigadiere dell'Arma dei Carabinieri, Domenico Macauda.

Parla del carabiniere che, quando fu ritrovata la macchina dei killer di Stasi ed Erriu, infilò dentro la vettura un bossolo di pistola, per orchestrare una manovra ai danni di persone innocenti: ma non fu processato e condannato? Non è una storia già chiarita?

Sì, parlo di lui e di quelle vicende che, però, sono tutt'altre che chiarite, come crede lei. A partire dal ritrovamento, il 22 aprile 1988, cioè, due giorni dopo la Strage di Castel Maggiore, della Uno bianca usata dagli assassini. Negli atti in possesso ai magistrati - in parte da me forniti, ma non solo da me - non solo non esiste una prova inoppugnabile che gli assassini di Stasi ed Erriu abbiano veramente abbandonato la macchina nella via Einaudi di quel paesino, pochi minuti dopo il duplice assassinio; ma, anzi, esistono indizi chiarissimi e testimonianze che attestano come quella maledette macchina sia stata portata in quel luogo molte ore dopo la barbara azione. Probabilmente, la notte successiva.

Sta sostenendo che qualcuno, il giorno dopo l'eccidio, avrebbe continuato a muoversi con la macchina che tutte le forze dell'ordine stavano cercando?

Esattamente. E non solo questo. Chi ha fatto ritrovare la macchina, dopo averla accuratamente lavata, vi collocò anche i due bossoli di cartucce esplose che, effettivamente, poi vi furono rinvenuti. Evidentemente, nell'ambito di un depistaggio iniziato fin dalle ore immediatamente successive all'assassinio dei due ragazzi.

Ma non fu Macauda a mettere lì dentro almeno uno dei due bossoli? E, poi, perché sostiene che la macchina fu lavata, dettaglio che non si legge in nessuna carta processuale o in altre ricostruzioni successive?

In primo luogo, è vero Macauda ha raccontato di aver messo lui, in una determinata maniera, il secondo bossolo, calibro 38, nell'auto dei killer (il primo, era un calibro 357 magnum), il giorno stesso del ritrovamento della Uno. Però, anche nella sentenza, con cui sono stati condannati Fabio e Roberto Savi per quel crimine, si attesta come falsa e impossibile la modalità, con cui Macauda ha sempre sostenuto di aver compiuto quel depistaggio. Incredibilmente, però, i magistrati di Bologna, invece di mettere nuovamente sotto torchio Macauda - negli anni da novembre '94 alla conclusione del processo, nel 1996 -, risolvono la questione, scrivendo, in sintesi: Macauda ha mentito sul modo in cui avrebbe compiuto il depistaggio, ma lo ha comunque fatto lui, seppur in un giorno diverso e in altro modo. Ma è una risposta impossibile: la macchina fu ritrovata alle ore 13 del giorno 22 aprile e il bossolo ufficialmente repertato la mattina del 23. Dunque, se Macauda non lo ha messo lì dentro nel pomeriggio del 22 aprile - e, infatti, non lo ha messo -, significa solo che era già dentro la macchina, quando questa fu portata in via Einaudi e, poi, ritrovata dai carabinieri di Borgo panigale e della Stazione di Castel Maggiore.

E il lavaggio?

Nel verbale di ritrovamento, i militari scrivono di aver trovato la Uno coi sedili anteriori completamente bagnati e annotano che ciò potrebbe esser stato causato dalla pioggia delle ore precedenti, dato che l'auto era stata abbandonata col finestrino lato guida aperto. Ora, a parte che la notte del 20 aprile e nella giornata e nottata del 21 non piovve affatto a Bologna; se anche Castel Maggiore fosse stata interessata dalla debole precipitazione di cui parlano gli annali meteorologici - che avrebbe interessato una parte del territorio provinciale, ma senza specificare i luoghi colpiti -, quello scroscio non avrebbe mai potuto determinare anche uno stato di "inzuppamento" del sedile anteriore di destra. Quale nubifragio e quale vento sono necessari, perché l'acqua bagni significativamente il sedile opposto al finestrino aperto, di una macchina posteggiata? Ed è per questo che, negli anni e nelle indagini successive, di questo dettaglio del verbale non ha parlato più nessuno.

Però, i 5 bossoli, sparati con la stessa pistola calibro 38 che aveva esploso quello trovato nella macchina dei killer e fatti trovare a casa di un piccolo pregiudicato, Salvatore Adamo, li aveva Macauda e fu lui a compiere il depistaggio. E quei bossoli se li procurò con la sua arma, come concluse l'inchiesta condotta da Spinosa. Questo è scritto nelle carte.

Con ordine. E' vero che il depistaggio a casa di Adamo fu compiuto da Macauda e che questo carabiniere infedele, per mettere in pratica la manovra, usò 5 bossoli sparati con la stessa pistola che sparò quello fatto trovare nella Uno degli assassini. Ma non è affatto vero che il brigadiere sparò quei colpi con la sua pistola d'ordinanza. Lo si è fortemente voluto far credere.

Non c'è una perizia balistica ad accertarlo, scusi?

No, ce n sono due. La seconda, quella a cui ci si è appigliati in tribunale, non dice che Macauda ha sparato con la sua pistola, ma solo che, avendo lui manomesso il percussore della sua pistola, non era più possibile stabilire, in via scientifica, come il revolver usato fosse quello o meno. 

E la prima?

Quella che ho trovai io nel fascicolo processuale, è una perizia ordinata in via amministrativa dalla stessa Arma dei Carabinieri addirittura prima di scoprire le trame di Macauda. Una perizia condotta su tutte le pistole calibro 38 e 357 in dotazione al Nucleo operativo di Bologna, la sezione in cui prestava servizio il brigadiere. E in quella perizia c'è scritto, a chiare lettere, che la pistola di Macauda non aveva sparato quei proiettili.

E, allora, da dove li aveva presi, il brigadiere?

Delle due, l'una: o possedeva una seconda calibro 38, illegalmente, che, grazie alla seconda perizia che aggiustava un po' le cose, tutti smisero di cercare; oppure, era in contatto diretto con chi possedeva l'arma del delitto, i Savi o altri ancora. Di conseguenza: o partecipò all'assassinio, oppure era o fu messo in contatto con gli assassini.

Lei, quindi, di conseguenza, sostiene che Macauda sarebbe stato aiutato da qualcuno nel processo, per passare ed essere condannato solo per il depistaggio, quando, invece, il suo ruolo sarebbe stato più complesso e più compromettente?

Ho consegnato alla Procura della Repubblica di Bologna documenti e deduzioni logiche, sempre fondate su documenti, che spiegano bene come Macauda sia stato aiutato a uscire da questa brutta storia da alcuni suoi colleghi e superiori, con l'aiuto anche di qualche magistrato che non indagò con la perizia che la gravità del caso avrebbe meritato e reso necessario.

E i Savi, in tutto questo?

Come ebbe a dire Roberto in un momento di rara sincerità, dopo l'arresto, lui sarebbe stato contattato dai servizi segreti, nel senso di alcuni carabinieri impiegati nei servizi, all'inizio del 1989. Il processo Macauda si concluse il 5 dicembre 1988. Dunque, i conti sembrano proprio tornare.  Coi suoi depistaggi, Macauda sviò le indagini dai veri colpevoli, oltre che da se stesso, e inaugurò la stagione lunghissima delle inchieste a carico di innocenti per i delitti che, via via, dal 1989 al 1994, compivano i poliziotti-killer e i loro complici. 

Tra cui anche molte azioni di tipo terroristico.

No, qui la contraddico. Non molte azioni di tipo terroristico. Bensì, alcune azioni di tipo terroristico, praticamente concentrate quasi tutte tra il dicembre 1994 e il gennaio 1991, di cui la Strage del Pilastro fu il culmine, anche se non l'ultimo episodio. Pochi crimini che, evidentemente, costituirono il prezzo da pagare per l'impunità sulle rapine a scopo predatorio.

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