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25 APRILE

I ragazzi di Salò: serviti a tutti, non più ricordati da nessuno

Non sarà mai vera festa, senza il tributo a chi lottò per l'onore della Nazione

I ragazzi di Salò: serviti a tutti, non più ricordati da nessuno

Dunque, per l'80esima volta, il 25 aprile sarà festa solo per una parte del Paese. Non importa se maggioritaria o meno. Anche perché, come sanno tutti, almeno coloro che con la politica ci vivono e ci lavorano, la strangran parte degli italiani se ne frega altamente di ciò che accadde tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Come di qualsiasi altra data storica, del resto.

Ormai, quella memoria - in senso pubblico e ufficiale - interessa solo a chi riveste ruoli importanti e deve pavoneggiarsi in qualche manifestazione. Oppure a coloro per i quali, più sinceramente, il ricordo della Resistenza è importante, ma anche perché assicura ancora l'esistenza di un apparato politico, amministrativo ed economico ancora ben radicato in Italia.

Poi, bisogna ammetterlo, oggi seduce una parte significativa di ragazze e ragazzi, i quali, imbevuti di auree leggende, credono sia autentica imitazione della lotta in montagna imbrattare dei muri; contrapporsi alle forze dell'ordine che hanno il tassativo ordine di non far loro del male; devastare qualche aula universitaria e scolastica e, magari, ribaltare un banchetto elettorale degli avversari politici. Preferibilmente della parte Centro del Centrodestra, dove è pacifico che non si troverà nessuno a contrastarli, fisicamente. 

Sicuramente, la Resistenza è ancora la bandiera - come da mezzo secolo a questa parte - di quella schiera di giornalisti, intellettuali, artisti più o meno validi che, avendo occupato tutti gli spazi di espressione e comunicazione, bollando la concorrenza di "nostalgismo" o di scarsa "affidabilità democratica", a torto o a ragione, non ha importanza, evita accuratamente che possa sfilargli il posto.

Di certo, non è e non sarà ancora per chissà quanto tempo la festa non tanto di coloro che, in quella ventina fatidica di mesi, raccolse da terra le armi che l'Antifascismo, dopo la sua prima vittoria del 25 luglio, aveva gettato per terra, scappando fin troppo frettolosamente nelle braccia degli Alleati. Di coloro che, raccogliendole, pur sapendo d'ingaggiare una lotta senza vera speranza di vittoria, insegnarono a tutti, dimostrandolo prima a se stessi, che le guerre si possono pure perdere, ma con dignità.

Non si parla di qualche sparuta pattuglia d'inveterati e irriducibili fascisti. E' la storia di 600 mila ragazzi e ragazze - a cui bisognerebbe aggiungere qualche milione di persone che le armi non le prese o non le poté prendere, ma si mise al servizio del nuovo, improvvisato Stato, creato affinché l'Italia non diventasse il palcoscenico tremendo e tragico dei soliti eserciti stranieri - che credettero, nel momento delle scelte decisive e irrevocabili, di doverla fare, una scelta, mentre i più si misero dietro le persiane ad aspettare di capire come sarebbe andata a finire.

Furono molti di più, tanto per essere chiari, delle poche migliaia che, al 24 aprile 1945, scelsero di fare la guerra in montagna. Gran parte delle quali, per altro, reclutate assaltando, tra la fine del '43 e i primi del '44, le carceri che, in quel momento, non erano certo piene di dissidenti antifascisti. Quelli, nella quasi totalità, erano e rimasero liberi fin dai tempi dell'esecutivo di Pietro Badoglio.

Ragazzi e ragazze che, 80 anni dopo, non esistono praticamente più. Ragazzi e ragazze, però, i cui discendenti e le cui famiglie, per lo più, conservano ancora la memoria, devotamente.

Ragazzi e ragazze, la cui esistenza, anche dopo la guerra civile - che non vollero loro, ma i loro nemici, con l'inevitabile portato di odio e sangue -, è stata utile o funzionale a tanti, anche in tempi recenti.

Basti pensare - due figure tra le tante - a chi, volendo essere pienamente riconosciuto come presidente della Camera, in un momento meno tragico, ma ben più torbido della storia nazionale, addirittura quasi inventò l'espressione "ragazzi di Salò", omaggiandoli e ottenendo un via libera da chi, idealmente, ne rappresentava l'esistenza in Parlamento. Il comunista Luciano Violante. E analoga espressione affiorò sulle labbra di Carlo Azeglio Ciampi, quando l'ex-governatore della Banca d'Italia coronò il sogno di diventare capo dello Stato, ma di uno Stato di cui faceva parte anche la memoria di quei ragazzi.

Le cose cambiarono radicalmente nel 2008, quando un ministro, oggi vicepresidente della Repubblica, pensò di poter dire cose analoghe a quelle pronunciate dai suddetti, in una commemorazione settembrina, a Roma. Al Quirinale sedeva Giorgio Napolitano, il quale la camicia nera l'aveva pure indossata, prima di scoprirsi comunista, e la lavata di testa per Ignazio La Russa fu delle più implacabili. Anche perché Napolitano - scopertosi così tanto democratico, pur solo a due decenni di distanza da quando, insieme a Enrico Berlinguer, approvava ordini del giorno a favore di Pol Pot e andava nelle piazze ad additare come falsari chi denunciava il genocidio cambogiano - sapeva di aver un asso nella manica, avendo portato dalla sua parte, in una trama contro Silvio Berlusconi, proprio chi avrebbe dovuto difendere, in quel frangente, il politico milanese.

Purtroppo, oggi sono ancor peggiorate ulteriormente. Gianfranco Fini è finito nel dimenticatoio che si è grottescamente costruito da solo, ma anche chi non lo ha seguito - dopo aver inizialmente rispolverato, anche un po' macchiettisticamente, a volte, il doveroso atteggiamento rispettoso per chi, pur avendo perduto quella guerra ormai lontana nel tempo, aveva permesso proprio a quella classe politica di restare in piedi, fino al punto di potersi lanciare alla conquista del governo nazionale - ha deciso di dimenticarsi, almeno pubblicamente, di quei ragazzi e di quelle ragazze.

Per fortuna, però, il Paese potrà sempre contare su figli e nipoti che, memori di aver avuto quei padri e quei nonni, continueranno a vivere e a lavorare in Italia, nutrendo un sincero, puro amore per la Patria. Ricordandosi sempre che, se allora ci fu chi ebbe il coraggio di tenere alte le bandiere "nei giorni scuri", sarebbe fin troppo vigliacco non faro "quando splende il sole".

Quei ragazzi e quelle ragazze - assassinati a decine di migliaia, quando ormai non potevano più difendersi, inaugurando la stagione dello Stato di Diritto con un bestiale e arbitrario bagno di sangue - sono esistiti e hanno servito con onore il loro Paese. Se il 25 aprile non riesce ancora ad accoglierli, non è vera festa per nessuno.

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