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GIUSTIZIA
28 Aprile 2025 - 13:54
Vittima e omicida del processo Stefani
Sofia Stefani, ex-agente della Pm di Anzola Emilia, è stata uccisa. Su questo non ci sono dubbi e il processo in corso non può aggiungere o togliere nulla a quanto la cruda realtà ha già raccontato. Giampiero Gualandi, ex-comandante degli stessi vigili di Anzola e, quindi, anche di Sofia, è l'omicida, colui il quale ha spezzato quella giovane vita. Anche su ciò non sussistono perplessità di sorta e pubblico ministero e avvocati della difesa non potranno, né in un senso né nell'altro, cambiare la dinamica tragica degli eventi.
Tra vittima e uccisore, fino a qualche tempo prima che si consumasse il dramma, c'era stata una storia sentimentale. Anche questo aspetto è ben noto a tutti gli attori del procedimento in corso in corte d'assise.
Dunque, cosa si dovrebbe "processare" e, invece, cosa si sta processando, in tribunale, a Bologna.
In teoria, ai giudici - e prima ancora al pubblico ministero - spetterebbe il compito di stabilire "solo" e "semplicemente" se si sia trattato, da parte dell'imputato, di un atto volontario, scientemente consumato, oppure di un gravissimo, ma pur sempre accidente occorso, durante l'incontro che i due ebbero proprio nell'ufficio del Gualandi.
Un nodo, per sciogliere il quale, più di qualsiasi altra considerazione, sono necessarie e utili le indagini di carattere tecnico, legate - si oserebbe dire: in modo oggettivo e freddamente analitico - alla perizia balistica, alla traiettoria dello sparo, alle impronte che sono state o non sono state rilevate sull'arma del delitto. A queste valutazioni, si ripete, "tecniche", andrebbero9 aggiunte quelle "circostanziali", intendendo con questa espressione la dinamica delle azioni che hanno preceduto e si sono verificate nel fatale incontro tra i due.
Solo sapendo se è stata Sofia ad andare da Gualandi, oppure il contrario, e solo ricostruendo come, nell'evidente alterco tra i due, è stato sparato quel colpo, chiarendo anche come e perché la pistola dell'imputato fosse a portata di mano e non in un cassetto o nella fondina, si potrà raggiungere una più o meno piena consapevolezza, circa la reale volontà di chi ha sparato di uccidere chi,. effettivamente, poi ha perso la vita.
Si è detto "solo" e "semplicemente" che, in un processo come questo, però, non sono affatto sinonimi di facilmente.
Di contro, anche oggi, è stata ascoltata l'ennesima testimonianza sulla "tossicità" del rapporto extraconiugale che legava la Stefani a Gualandi, questa volta per voce di tale Antonella Gasparini, amica della vittima. Deposizione, il cui scopo è certamente quello di mettere in cattiva luce - in gergo, gli avvocati parlano di "mostrificazione" - l'imputato, ma che, al pari di quelle già sentite da parte di colleghi e colleghi, illuminano in modo non edificante entrambi. E tutto questo pone un interrogativo: che senso ha sviscerare così lungamente aspetti di una relazione clandestina che, per suo stessa natura, ha luci e ombre nell'agire di tutti e due gli amanti, quando è palese che, qualsiasi cosa emerga da queste narrazioni, non si potranno ricavare da queste elementi "al di là di ogni ragionevole dubbio" a supporto dell'accusa o a discarico della stessa?
Gualandi è un omicida, bisogna stabilire se volontario, preterintenzionale o colposo. Cosa potrà mai aiutare a capire la frase della teste odierna, secondo la quale, in una non meglio precisata occasione di molto precedente l'uccisione della Stefani, Gualandi avrebbe detto alla ragazza: "Guarda che ho una pistola!". Che l'avrebbe minacciata? E come: mettendo a conoscenza la vittima di una circostanza ben conosciuta dalla vittima e per altro banale? Perché che gli agenti di Polizia locale siano armati lo sanno tutti e ancor di più lo sapeva la Stefani, la quale era stata agente fino a qualche tempo prima della sua morte. Circostanza resa quasi grottesca - nella sua pretesa valenza probatoria - dall'ulteriore specificazione, sempre da parte dell'amica oggi testimone, secondo cui la vittima "ammirava l'abilità di Gualandi con le armi" e, anzi, addirittura, questa sua familiarità con le pistole avrebbe fatto "parte della sua venerazione, o ammirazione, per lui".
Dunque, che minaccia sarebbe stata, da parte di Gualandi, ricordare alla Stefani d'essere in possesso di una pistola?
Purtroppo, come è accaduto e sta accadendo anche in altre parti d'Italia, da Garlasco a Perugia, da Cogne a Erba, anche a Bologna un delitto così triste e maledetto rischia di diventare l'ennesimo oggetto di divisione per l'opinione pubblica, distinta in "innocentisti" e "colpevolisti", in base a elementi di diversa suggestione, agitati dalle stesse parti processuali perché incapaci di trarre un verdetto autenticamente fondato su prove oggettive. Per non parlare dei tentativi, neppure tanto nascosti, di affermare, con l'eventuale giudizio, non tanto e non solo la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato - per altro, in questo caso, innocenza relativa solo alla modalità e al movente dell'omicidio, di cui è comunque responsabile -, la validità o meno di tesi politiche e sociologiche molto di moda oggi, quando si parla di violenza tra persone di genere diverso.
Solo che, quando i processi vengono condotti sul filo delle suggestioni, invece che sulla qualità granitica delle investigazioni e degli elementi di prova, quale che ne sia l'esito, parlare di "giustizia" è, per lo meno, azzardato.
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