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Cinema
12 Aprile 2025 - 17:00
Ci sono racconti che, pur passati decenni, sembrano appena sussurrati dal vento. "Ladyhawke" è uno di questi: un film che non ha mai smesso di parlare a chi sa ascoltare. Diretto da Richard Donner e apparso per la prima volta sugli schermi nel 1985, venne accolto con freddezza, come se il suo tempo non fosse ancora arrivato. E forse era proprio così. Oggi, a quarant’anni di distanza, quell'opera si staglia come una vetta solitaria nel paesaggio del cinema fantastico, evocando emozioni ancora vive, ancora potenti.
Non è un caso che uno degli artisti più visionari del fumetto giapponese, Kentaro Miura, si sia lasciato suggestionare da "Ladyhawke". Le architetture severe, le campagne desolate, i cieli grigi d’Italia che fanno da cornice al film, sembrano specchiarsi nei territori cupi e sofferti di "Berserk". Ma non è solo questione di scenari. Il tormento di Etienne di Navarre, trasformato in lupo dalla maledizione di un vescovo folle, riecheggia nel destino di Guts: entrambi cavalcano solitudini, entrambi combattono un male che li consuma, entrambi cercano luce dentro la notte.
Dietro questa leggenda cinematografica c’è la penna di Edward Khmara, autore di una sceneggiatura sospesa tra realismo e mito. Ma è stato Richard Donner, regista dal curriculum sfavillante, a credere fino in fondo nella magia di questa storia. La sua intuizione? Girare in luoghi veri, in spazi che parlano da soli: Rocca Calascio, Soncino, l’Umbria. Non set, ma luoghi vissuti, dove pietre e vento raccontano secoli. Il risultato è un film che sa di terra e incantesimo, lontano dalle patinature hollywoodiane, vicino invece alla carne e al sangue delle leggende medievali.
Il triangolo narrativo è perfetto: Rutger Hauer è un cavaliere tormentato che affronta il mondo con lo sguardo di chi ha già perso tutto, Michelle Pfeiffer una creatura eterea condannata alla luce del giorno, e Matthew Broderick un ladruncolo irriverente che porta leggerezza e umanità nel cuore della tragedia. Il loro viaggio – punteggiato da duelli, fughe e incantesimi – è un’allegoria dell’amore che resiste al tempo e alla maledizione, ma anche un’esplorazione profonda del destino e della libertà.
Se oggi "Ladyhawke" è amato, lo si deve anche alla visione di Vittorio Storaro, direttore della fotografia, e alla discussa – ma ormai iconica – colonna sonora di Andrew Powell in collaborazione con Alan Parsons. Un mix di synth e orchestrazioni che all’epoca disorientò, ma che oggi appare quasi profetico, anticipando il gusto per la contaminazione musicale tipico del cinema contemporaneo.
Col tempo, "Ladyhawke" ha guadagnato uno spazio speciale nel cuore di chi cerca nel fantasy non solo evasione, ma poesia. Non ha bisogno di effetti speciali esagerati né di sequel inutili: è un film completo, che racconta tutto senza dire troppo, lasciando spazio al mistero. Come certi amori, come certi incantesimi.
Quarant’anni dopo, resta la sensazione di avere visto qualcosa di unico. Un film che ha saputo incrociare favola e tragedia, cavalieri e falchi, magia e malinconia. Un’opera che, a modo suo, ha cambiato la storia del fantasy. E che ancora oggi, ogni volta che il sole tramonta, ci ricorda che l’amore – come la maledizione – può attraversare il tempo.
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