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Immigrazione, sicurezza e verità: da Bologna un segnale che l’Italia non può più ignorare

Quando la realtà urbana supera la narrazione, servono scelte politiche coraggiose, responsabili e libere dall’ideologia.

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Bologna è una città colta, accogliente, empatica.
Ha una lunga storia di apertura, di ascolto e di solidarietà. Una città che ha sempre fatto dell’inclusione una cifra distintiva, anche nelle sue politiche urbane e sociali.
Ma oggi, qualcosa sta cambiando.
Non si tratta di paura, né di rigurgiti ideologici.
È la stanchezza che si fa largo, la fatica del vivere quotidiano, in un contesto in cui la narrazione ufficiale sembra non coincidere più con l’esperienza concreta dei cittadini. I portici raccontano, oggi, un’altra storia: quella di una città che chiede di essere ascoltata. Non meno accogliente, ma più esigente.
Non è razzismo, è discernimento.
Non è chiusura, è richiesta di giustizia.
Non è intolleranza, è una domanda di regole.
La questione migratoria si intreccia con i temi della sicurezza, dell’integrazione, della sostenibilità sociale ed economica.
E a Bologna, come in molte città italiane, sta emergendo una verità scomoda: non si può più parlare di accoglienza senza parlare di legalità.
E non si può più far finta che le devianze non esistano.
Il costo della devianza: numeri che fanno riflettere
Ogni detenuto costa allo Stato oltre 137 euro al giorno, più di 50.000 euro all’anno. Con oltre 62.000 detenuti nelle carceri italiane e un tasso di presenza straniera del 31%, la spesa pubblica supera i 3,3 miliardi di euro l’anno.
Non si tratta solo di un problema penitenziario.
Si tratta di capire se sia giusto continuare a investire in un sistema che punisce senza integrare, mentre servizi fondamentali come sanità e istruzione affrontano tagli e carenze strutturali.
Centri di rimpatrio: costosi e inefficaci
Il sistema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) è un altro esempio di inefficienza pagata a caro prezzo.
Nel CPR di Brindisi, il costo per ogni posto supera i 71.000 euro annui. Eppure, solo il 10% degli immigrati con ordine di espulsione viene effettivamente rimpatriato.
Nel frattempo, la percezione pubblica si deteriora.
Perché se accogliere è un atto di civiltà, non saper gestire le conseguenze della mancata integrazione significa minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Accoglienza: quando funziona, e quando no
L’Italia ha conosciuto esperienze di integrazione riuscita, specie nei piccoli comuni dove il lavoro, l’educazione e il coinvolgimento reciproco hanno creato comunità coese.
Ma queste buone pratiche non possono più giustificare un’accoglienza generalizzata, priva di selezione e senza garanzie di reciprocità.
La realtà urbana racconta storie diverse: spacciatori nei parchi, aggressioni nelle stazioni, microcriminalità diffusa. Episodi che, isolati, non fanno statistica; ma ripetuti nel tempo e nello spazio, diventano esperienza condivisa.
E la politica ha il dovere di ascoltarla.
L’appello: governare significa distinguere
Il tema non è l’immigrazione in sé, ma la mancanza di una visione selettiva e responsabile. L’Italia non può permettersi di perdere credibilità, né sul piano internazionale né sul piano interno.
Accogliere chi fugge da guerre e persecuzioni è un dovere etico e giuridico. Ma lo è anche difendere la sicurezza e la dignità di chi vive e lavora nel Paese.
La cittadinanza non chiede muri, chiede giustizia. Chiede che si riconoscano le differenze, che si premi chi si integra e si intervenga su chi rifiuta ogni regola. Chiede una politica che torni a governare il fenomeno, senza cedere né alla propaganda né al silenzio.
È tempo di scelte.
Scelte difficili, ma necessarie.
Perché il buon senso non è più un’opzione: è una responsabilità. 
E chi oggi ha il potere di decidere, non può più permettersi di far finta di non vedere.
 
 

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