Tutti veniamo al mondo allo stesso modo. Senza un nome, senza una fede, senza una patria. Abbiamo fame, freddo, e un bisogno primordiale di essere accolti. In quell’istante, siamo uguali in ogni angolo della Terra: neonati, nudi, vulnerabili. Nessuno sa dove si trova, chi è, cosa sarà. Nessun neonato porta ideologie, ricchezze, privilegi o colpe. Solo un respiro nuovo, un corpo vivo, una voce che grida per essere ascoltata. È il momento più universale della nostra esistenza. Poi, qualcosa cambia. Arriva il primo confine: la famiglia e le sue tradizioni. È lì che il mondo si restringe e prende forma. Le parole che ascoltiamo, gli sguardi che riceviamo, il tono con cui ci si rivolge a noi: tutto ci modella, giorno dopo giorno. Non ce ne accorgiamo, ma impariamo presto chi siamo “noi” e chi sono “gli altri”. La famiglia ci nutre e ci protegge, ma ci racconta anche il mondo attraverso i propri occhi. E così, senza che possiamo scegliere, ereditiamo convinzioni, paure, abitudini. La fede viene prima ancora del linguaggio. L’identità ci viene consegnata prima di avere coscienza. Il giudizio su ciò che è giusto o sbagliato si insinua nella carne prima ancora che nel pensiero. A quel punto, l’uguaglianza originaria è già un ricordo remoto, è compromessa. Iniziamo a diventare qualcuno, ma anche a perdere qualcosa. Il bambino cresce e, un giorno, si accorge che esiste un fuori rispetto al dentro. Vede che ci sono altre famiglie, altre regole, altre idee. Il primo vero cambiamento umano avviene in quel momento: quando realizza che il mondo non è universale, ma parziale. Che la verità che conosce è una delle tante. Che l’amore ricevuto è stato un filtro, non una verità assoluta. È qui che l’essere umano smette di essere solo natura e diventa costruzione. Tutto ciò che sarà — le scelte, i desideri, le ribellioni, le appartenenze — si costruirà in relazione a quel primo nucleo. Alcuni lo ripeteranno, altri lo combatteranno. Ma pochi avranno il coraggio di domandarsi: chi sarei stato, se fossi nato altrove? Perché la vera domanda non è “chi sono”, ma “cosa mi ha reso ciò che credo di essere?”. La famiglia è la prima radice. Può essere feconda o sterile, aperta o chiusa, accogliente o ferita. Ma incide. Lascia segni. E spesso diventa una gabbia invisibile: quella dei “si è sempre fatto così”, quella del “devi essere come ti abbiamo immaginato”, quella del “non deludere chi ti ha dato la vita”. Ma noi non siamo solo ciò che ci hanno dato. Siamo anche possibilità. Siamo la memoria di quel primo istante in cui eravamo nulla, eppure tutto. In cui nessuno era sopra o sotto, dentro o fuori. Siamo nati umani, non italiani, cattolici, musulmani, ricchi o poveri. E forse — forse — possiamo tornare a quella sorgente non per restarci, ma per ricordarci che esisteva. Perché la memoria dell’uguaglianza originaria è l’unica arma che abbiamo contro ogni discriminazione. E perché riconoscere ciò che ci ha plasmato è il primo passo per diventare, davvero, liberi.
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