A un anno dall’esplosione della centrale idroelettrica di Bargi, sul lago di Suviana, il tempo sembra essersi fermato. Il dolore resta immobile, come l’acqua stagnante al piano meno cinque. Ma più di tutto, è la giustizia a non muoversi. Le indagini sono ancora bloccate. I periti nominati dalla procura non sono stati autorizzati a entrare nella centrale. Le famiglie delle sette vittime aspettano risposte che non arrivano. Una voce, tra tutte, ha scelto di rompere il silenzio: quella di Nicoletta D’Andrea, sorella di Alessandro, uno degli operai morti il 9 aprile 2024. Alessandro lo chiamavano “l’inventore”. Lavorava in ambienti estremi, quaranta metri sotto il livello dell’acqua. Un mestiere tecnico e delicato, poco conosciuto, fondamentale per garantire l’energia di cui tutti usufruiamo. “Aveva la mania di immaginare vie di fuga – racconta Nicoletta – ma lì sotto, vie di fuga non ce n’erano. Non si può lavorare in quegli ambienti senza piani di sicurezza chiari, senza protezioni. Almeno adesso, merita verità e dignità.” La centrale, nel frattempo, è ancora ferma. L’accesso al piano dell’esplosione è impossibile: l’acqua non è stata completamente rimossa. E la procura, nonostante le richieste, non ha ancora dato il via libera ai sopralluoghi. L’inchiesta per disastro colposo, omicidio plurimo e lesioni gravi resta in stallo. L’attesa logora. “La giustizia non può permettersi di essere più lenta del dolore”, dice l’avvocato Gabriele Bordoni, che assiste la famiglia D’Andrea. “Qui non si tratta solo di accertare colpe, ma di riconoscere il valore umano e professionale di chi è morto.” Sette lavoratori altamente specializzati, immersi in un contesto ad alto rischio, senza via di uscita in caso di emergenza. È questo il nodo della vicenda: la sicurezza. Una sicurezza che, secondo i familiari, è mancata del tutto. Non ci sarebbe stato un vero piano di evacuazione, né protocolli efficaci per un contesto tanto estremo. Nicoletta ha raccolto attorno a sé anche la voce degli altri parenti. Condivide il dolore, ma anche la rabbia: “Non possiamo aspettare in eterno. Non è solo una questione privata. È un tema pubblico. Morire sul lavoro non può restare un fatto opaco.”A un anno di distanza, la sensazione è che tutto sia ancora fermo. Il tempo giudiziario non coincide con quello del lutto. Le famiglie si sentono abbandonate. E la memoria rischia di scivolare nel silenzio. Il primo passo – dicono – è rompere quel silenzio. Poi serviranno risposte, responsabilità, e soprattutto impegni concreti: perché ciò che è successo non si ripeta. Suviana, oggi, è anche un simbolo. Della fragilità dei sistemi di sicurezza. Della fatica di chi lavora lontano dai riflettori. E dell’urgenza, tutta italiana, di affrontare seriamente il tema delle morti sul lavoro. Sette nomi, sette vite. Ognuna con una storia, una famiglia, un futuro spezzato. Ognuna in attesa che almeno la giustizia trovi il coraggio di scendere al piano meno cinque.
In memoria di: Alessandro D’Andrea Cristian Calabretta Nicolò Rossi Andrea Forni Giuseppe Giordano Davide Zappalà Fabio Mazzotti
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