C’è sempre un anello debole nella catena del mercato. E ancora una volta, come sempre accade, a pagare il prezzo delle instabilitàglobali saranno i lavoratori. Gli stessi che da decennireggono il peso silenzioso di un sistema che ha cancellato il ceto medio e moltiplicato i privilegi di pochi. Oggi quel silenzio operoso e rispettoso, che per anni ha caratterizzato le cosiddette formichine dell’economia reale, è diventato un rumore assordante. Quelle formichine erano artigiani, piccoliimprenditori, dipendenti con una dignità economica costruita sul lavoro. Produceva economia, quella fascia sociale. Alimentava scambi, fiducia, mercato. Oggi non può più farlo. E nel frattempo chi potrebbe — il ricco, il ricchissimo — resta immobile. Non spende, non investe, non rischia. Trattiene liquidità, mentre la macchina produttiva si sgonfia. Il ritorno dei dazi e l’Emilia-Romagna nel mirino globale In questo scenario di incertezza, i dazi sono tornati a far tremare le fondamenta del commercio internazionale. Si chiudono i canali, si alzano barriere, e le economie più aperte — come quella dell’Emilia-Romagna — ne pagano subito le conseguenze. La regione è un cuore pulsante dell’export italiano: meccanica, agroalimentare, moda, biomedicale. Settori che vivono di connessioni, non di chiusure. Ma il mondo, oggi, digerisce sempre meno i dazi. E quando il globo “non digerisce”, si agita. Le borse crollano non per reali default economici, ma per percezioni, per timori, per instabilità politiche. È il pensiero negativo, ad esempio nei confronti di figure come Donald Trump — catalizzatore di tensioni internazionali — che alimenta il panico. Non ci sono solo numeri, ma emozioni a muovere le curve dei mercati. Il ceto medio: la grande assenza che pesa su tutti Sono passati almeno quindici anni da quando il ceto medio, quello vero, ha iniziato a scomparire sotto il peso delle crisi, delle riforme fiscali sbilanciate, dell’instabilità occupazionale e di un'inflazione che colpisce solo chi ha poco da proteggere. Nessun funerale pubblico, nessuna dichiarazione ufficiale. Solo un lento, rigoroso silenzio. Ma oggi quel silenzio è diventato un rumore assordante. Le famiglie che prima riuscivano a risparmiare, a progettare un futuro, a consumare con intelligenza e contribuire a un’economia diffusa, oggi arrancano. Sono finite nel limbo della precarietà. Non abbastanza povere da ricevere aiuti, non abbastanza ricche da potersi difendere. In mezzo, un vuoto. Un’Italia intera che non si riconosce più e che ha smesso di contare davvero. E con lei si è dissolta anche una parte della nostra economia: quella che nasceva dal lavoro quotidiano, dall'impresa familiare, dall'artigianato che costruiva valore senza speculare. I ricchi frenano: la paralisi del capitale che disintegra il sistema E mentre il cuore dell’economia reale rallenta, chi detiene la ricchezza resta fermo. Gli ultra-ricchi non spendono, non investono nel lungo termine, non sostengono la domanda interna, non continuano la speculazione. Preferiscono attendere, osservare, proteggere i patrimoni con strumenti sofisticati che non generano movimento economico, ma solo rendita. Questa frenata non è solo egoismo: è parte integrante di un sistema che ha sostituito il rischio con la rendita, l’imprenditorialità con la speculazione, l’economia produttiva con quella finanziaria. Il paradosso è evidente: chi potrebbe alimentare il circuito della crescita sceglie di fermarsi, mentre chi avrebbe bisogno di essere sostenuto si trova senza ossigeno. Così il motore si inceppa, e le borse crollano, non per mancanza di denaro, ma per assenza di coraggio e visione. Riequilibrare il mercato: una sfida che parte dal basso È ancora possibile ridare forza a un’economia che metta al centro i lavoratori e la qualità della vita? Una vita meno drogata dal successo immediato, meno affamata di immagine, e più radicata nella concretezza di un benessere distribuito e stabile? Il sistema, com’è oggi, tende a premiare l’apparenza, il risultato immediato, il profitto che non costruisce. Ma ogni società che dimentica il senso del lavoro come motore di dignità, ogni mercato che sacrifica l’equilibrio per l’efficienza cieca, è destinato prima o poi a cadere in crisi profonde. È qui che torna utile il pensiero di Charles Taylor, che ci ricorda come l’identità autentica non si costruisca nel vuoto della performance, ma nel riconoscimento reciproco. E quello di Jean Baudrillard, che ci mette in guardia contro l’illusione di un mondo dominato dalle immagini e non più dai fatti. Oltre il crollo: un’opportunità? Forse questa frenata globale può essere letta come una crepa da cui far filtrare un’altra luce. Un’opportunità per ridisegnare le priorità, per costruire un’economia più giusta e meno dipendente dal panico dei mercati. Serve però una scelta collettiva, coraggiosa. E serve che chi oggi ha voce e mezzi, smetta di voltarsi dall’altra parte. Perché quando a fermarsi sono le borse, si può sempre ricominciare. Ma quando si ferma la fiducia dei lavoratori e delle persone comuni, allora a tremare non è solo il mercato: è la tenuta stessa della società. E Bologna, con il suo straordinario patrimonioindustriale — tra meccanica di precisione, packaging, biomedicale e agroalimentare — non è estranea a queste dinamiche. Alcune delle sue eccellenze sono oggi quotate in borsa e vivono quotidianamente la tensione tra mercato finanziario e economia reale. Ma è proprio da città come questa, dove innovazione e lavoro si sono sempre intrecciati, che può nascere un modello diverso: più solido, più umano, più lungimirante.
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