Primo papa latino-americano, primo gesuita a diventare pontefice, unico ad assumere il nome di Francesco, ma non pensando al patrono d’Italia, bensì alla dimensione pauperistica della Chiesa. A Jorge Bergoglio non dispiaceva certo essere una specie di recordman del Cattolicesimo, tanto da compiere scelte per certi versi pure bizzarre, come quella di eleggere Eugenio Scalfari a suo personale “confessore politico-sociale”. Infatti, è stato anche il primo vescovo di Roma acriticamente sostenuto dall’intellighenziasinistrorsa nostrana, per la quale gli accenti posti più frequentemente sui temi imposti dal mainstream, piuttosto che su quelli teologici, erano delizie per l’orecchio. D’altra parte, l’ordine ecclesiastico in cui si era formato non era più quello romantico dei miliziani di Cristo delle origini, ma evocava nelle conventicole progressiste le comunità nate nel Sudamerica, quelle che si contrapponevano al potere economico dei conquistatori propriamente detti o finanziari; per non parlare - in Italia - del centro Arrupe, dove, iniziando con Leoluca Orlando, furono gettate le basi del cattocomunismo contemporaneo o ulivismo che dir si voglia. In realtà, Bergoglio non era molto diverso dai suoi predecessori, in tema di Fede, tanto da incorrere anche in qualche scivolone espressivo – come quando si lamentò della “frociaggine” dilagante tra i preti. Solo che Francesco, appunto, manifestava queste sue profonde convinzioni solo in privato o quasi, preferendo nel discorso pubblico i toni capaci di compiacere la parte avversa al mondo che, per alto ufficio, rappresentava o avrebbe dovuto rappresentare. Forse, perché conscio di non avere la profondità filosofica e teologica del suo predecessore e, per lungo tempo, co-protagonista scomodo del suo stesso pontificato. Sicuramente, scegliendo di cercare il consenso delle folle, ha dimostrato di non avere neanche il carisma e l’afflato di Giovanni Paolo II. Anzi, da questo punto di vista, deviando dal percorso tracciato da Benedetto XVI, ha completato la parte meno positiva del papato di Karol Wojtyla, riempiendo di fans (molto meno di lui) le piazze, ma svuotando ancor più le chiese di fedeli. È stato un papa all’altezza dei suoi tempi, certamente, ma i suoi tempi sono stati e sono inani. La sua voce è risuonata cristallina, per tutti, solo in un’occasione, quando l’ha elevata al cielo per gridare contro la guerra, in Ucraina e in Palestina. Anche in questi casi, però – ma forse a causa della salute ormai precaria – gli è mancato il piglio per recarsi a Mosca, a Kiev, a Gerusalemme o a Gaza. Ha avuto il coraggio di dire di no alla narrazione della realtà che lo circondava, ma non quello necessario a entrare nel racconto della Storia.
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