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Emilia-Romagna al bivio dei dazi: salvare export, lavoro e competitività nell’era del protezionismo

Le aziende dell’Emilia-Romagna fanno i conti con il ritorno dei dazi statunitensi: a rischio miliardi di euro, migliaia di posti di lavoro e il modello produttivo regionale. Tra soluzioni locali e strategie europee, il nodo resta politico.

Uniocamere

Emilia-Romagna

Il temporaneo stop ai dazi imposto dal presidente Trump ha congelato, ma non risolto, l’incubo che incombe su una delle regioni più dinamiche d’Europa: l’Emilia-Romagna.
Una minaccia da miliardi di euro che colpisce al cuore un sistema produttivo fortemente integrato con gli Stati Uniti, dove 5.788 imprese regionali esportano beni per oltre 10,5 miliardi di euro l’anno. Ma se il dato aggregato fa impressione, quello disaggregato racconta una realtà ancor più delicata: su oltre 1.200 aziende il peso dell’export americano è così cruciale da rendere ogni dazio una potenziale minaccia esistenziale.
Una regione globale, con il fiato sospeso
Secondo i dati Unioncamere Emilia-Romagna, il 29% delle imprese esportatrici verso gli USA concentra il 90% del volume totale: un nucleo vitale che da solo dà lavoro a 150.000 persone e sviluppa 50 miliardi di fatturato.
Settori come la meccanica, l’automotive e l’agroalimentare — eccellenze storiche del Made in Emilia-Romagna — rischiano pesanti contraccolpi.
In 450 casi, il dazio vale già oggi oltre il 3% del fatturato; per 69 imprese supera addirittura il 10%.
E a questi numeri vanno aggiunte le aziende che importano dagli USA — più di 2.000 — e tutta la rete indiretta di subfornitori e partner di filiera.
L’effetto domino, se innescato, può diventare una crisi sistemica. “Dobbiamo guardare all’insieme del sistema economico regionale, non solo alle singole aziende colpite”, sottolinea Guido Caselli, vicesegretario di Unioncamere e autore dello studio Dall’America all’officina. “Ogni punto percentuale perso sul fronte americano ha ripercussioni che vanno ben oltre la bilancia commerciale”.
Bologna e la via della resilienza
Bologna, città metropolitana al centro della Rete Alta Tecnologia, si muove con pragmatismo.
Qui, dove innovazione industriale e ricerca convivono, la risposta non può che passare dal rilancio degli investimenti. “Serve un ritorno a Industria 4.0”, rilancia Valerio Veronesi, presidente di Unioncamere Emilia-Romagna. “Il piano 5.0 è naufragato, con richieste pari a un decimo dei fondi stanziati.
È ora di ripartire dalle imprese, dai macchinari, dalla formazione e dalla finanza dedicata”.
L’Emilia-Romagna, già protagonista del “Patto per il Lavoro e per il Clima”, punta sull’attrattività come risposta di sistema: accogliere i cervelli in fuga dalle ricerche statunitensi in crisi di fondi, rilanciare l’internazionalizzazione attraverso il capitale umano e valorizzare il modello integrato tra università, imprese e territori.
Una questione europea
Ma se Bologna si attrezza, l’Italia sembra arrancare. Mentre la Germania annuncia un piano strategico per rafforzare il proprio apparato manifatturiero, Roma appare ancora incerta sulla direzione da prendere.
Il rischio, secondo Veronesi, è che “la Germania correrà da sola, e noi resteremo indietro, anche senza dazi”.
L’industria emiliano-romagnola è infatti legata a doppio filo al futuro della manifattura europea.
Italia e Germania rappresentano il cuore produttivo del continente: perdere terreno in America può voler dire cedere quote in tutto il mondo.
“Le imprese ci sono, devono solo sapere dove andare”, ribadisce Veronesi. “Serve meno impulsività e più pianificazione.
Sediamoci a un tavolo, ragioniamo insieme”.
Scenari oltre il commercio
complicare il quadro c’è la presenza — spesso invisibile — di legami diretti con il tessuto produttivo statunitense.
Sono ben 365 le aziende emiliano-romagnole che controllano quote di maggioranza in società americane, e 66 le imprese regionali controllate da gruppi statunitensi.
A queste si aggiungono 138 investimenti americani sul suolo regionale, con sei miliardi di fatturato e oltre 14.000 posti di lavoro.
Una rete complessa, che rischia di ristrutturarsi verso una localizzazione produttiva negli USA per aggirare i dazi, con conseguenze occupazionali e industriali sul versante italiano.
La sfida è anche identitaria: l’Emilia-Romagna può ancora essere, come nel dopoguerra, una terra laboratorio per un’Europa che tiene insieme industria e diritti, innovazione e radicamento locale?
La posta in gioco è alta.
Il bivio: tra mercato e politica
Oggi più che mai, la politica commerciale è tornata ad essere politica industriale. Le aziende emiliano-romagnole chiedono regole certe, ma anche visione.
La risposta non può essere affidata solo alle trattative bilaterali con Washington. È il momento per l’Italia di rilanciare una proposta europea, che unisca difesa dei mercati, investimenti strutturali e una rinnovata politica di filiera.
Senza un progetto chiaro, il rischio è che ogni dazio diventi un tassello in più nella crisi di competitività. Ma con la consapevolezza, l’organizzazione e il coraggio di un territorio abituato a fare sistema, l’Emilia-Romagna può ancora trasformare questa minaccia in una nuova opportunità di leadership.
 

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